L’ARTO
FANTASMA
Si stima che oltre il
90% delle persone che abbiano subito un’amputazione, sentano la parte del corpo
mancante ancora presente e, in molti casi, tale percezione risulta associata a
forme di sofferenza fisica e psichica. L’arto fantasma non deve considerarsi
una curiosità neurofisiologica, ma un problema medico di difficile soluzione
per la frequente resistenza ai trattamenti farmacologici. Le nuove acquisizioni
sulle basi neurobiologiche del fenomeno hanno ispirato tecniche di terapia fisica
basate sull’impiego di specchi e realtà virtuale, che hanno già dato risultati
promettenti.
CENNI STORICI. Già in molte storie di epoca
medievale si legge di persone che, prive di un arto o di parti di esso, in
circostanze ritenute straordinarie sembrava ne percepissero la presenza; ma si
deve attendere il 1500 per la prima descrizione medica di sintomi riferiti ad
una parte del corpo mancante. Nel corso di tale secolo, infatti, il chirurgo
militare francese Ambroise Paré, che aveva migliorato le tecniche di asportazione
degli arti prolungando la sopravvivenza dei feriti sottoposti ad amputazione,
descrisse molti casi del fenomeno in soldati provenienti dai campi di battaglia
europei. Sebbene Paré godesse della stima dei contemporanei, ed oggi lo si
consideri un antesignano della chirurgia ortopedica della mano per aver
progettato un dispositivo meccanico in grado di sostituire la funzione
articolare metacarpo-falangea, la sua descrizione della percezione dell’arto
perduto fu ignorata per oltre 300 anni.
Nel
1866, sull’Atlantic Montly, fu pubblicato un racconto dal titolo “Il
caso di George Dedlow” in cui il protagonista, che aveva già perso un braccio
nella Guerra Civile americana, si risveglia in un ospedale dopo l’amputazione
degli arti inferiori, avvenuta a sua insaputa, ed avverte un acuto dolore da
crampi alla gamba sinistra. La breve storia non recava alcuna firma, ma presto
se ne conobbe la paternità: Silas Weir Mitchell, il più noto neurologo
americano di quei tempi. Alcuni storici della medicina hanno ipotizzato che il
medico avesse scelto la pubblicazione anonima su un mensile di larga diffusione,
per saggiare le reazioni dei suoi pari senza rischiare il suo prestigio, in
un’epoca in cui il positivismo imperante nella cultura scientifica aveva
indotto nella classe medica uno scetticismo intransigente verso tutti i
fenomeni non riconducibili ad una base materiale.
Nel
1872 Silas Weir Mitchell usa per la prima volta l’espressione “Phantom limb”
per descrivere le sensazioni riferite dai mutilati della Guerra Civile; da
allora sono stati pubblicati centinaia di studi di casi in cui la percezione
soggettiva dei pazienti è stata resa con le due parole introdotte da Mitchell
che, nel tempo, hanno perso le virgolette, assumendo dignità di denominazione
scientifica.
MOTIVI DI INTERESSE. Generazioni di fisiologi e
psicologi si sono cimentati con il problema dell’interpretazione dell’arto
fantasma che, nel corso del XX secolo, è divenuto, di volta in volta, ostacolo
o fulcro di ipotesi, teorie e modelli dello “schema corporeo” e del modo in cui
la percezione del corpo crea la realtà del sé. Ma, al di là dell’interesse
scientifico e speculativo, il fenomeno si presenta con una sua drammaticità
clinica, che schematicamente si può ricondurre a tre espressioni sintomatiche: 1)
dolore, 2) ansia, 3) disturbi correlati.
Dolore. Spesso presente con caratteri di intensità e persistenza che lo rendono
intollerabile, il dolore pone un serio problema terapeutico perché solo in una
minoranza di casi i farmaci antidolorifici risultano efficaci.
Le
interviste anamnestiche precedenti l’amputazione hanno rilevato che in casi
quali sindromi da schiacciamento in politraumatizzati, ustioni gravi, gangrene
ed ulcere profonde, caratterizzate da intenso dolore, è molto più elevata la
probabilità che si sviluppi una sindrome algica riferita alla parte del corpo
mancante; come se il dolore provato in precedenza si fosse impresso nella
memoria acquistando la capacità di persistere anche dopo la scomparsa della
fonte.
Oltre
il 70% dei pazienti amputati avverte sensazioni dolorose riferite a territori
di innervazione del segmento corporeo asportato già immediatamente dopo
l’intervento e, in molti casi, il dolore permane per anni. La sofferenza può
essere debilitante, riducendo la disponibilità alla vita di relazione e
all’impegno in attività lavorative, di necessità o di svago, anche perché
coloro che soffrono di questa sindrome algica sono meno propensi all’uso di
protesi sostitutive.
L’importanza
della componente protopatica spiega perché le prime ipotesi scientifiche
sull’origine dell’arto fantasma siano venute da due fra i massimi studiosi del
dolore del XX secolo, ossia Patrick Wall e Ronald Melzack, noti per aver
formulato la teoria della modulazione in ingesso degli stimoli dolorifici da
parte dei neuroni delle corna dorsali del midollo spinale (gate control
theory).
Ansia. La sensazione di presenza di una parte del corpo che non c’è più, ha un
potere di evocare ansia tanto più elevato quanto maggiore è il grado di
compromissione dello stato psichico generale per effetto della patologia,
dell’intervento di amputazione e dell’esperienza della perdita di una parte di
sé e della sua funzione. Infatti, quando si determina, ad esempio, uno stato di
allarme per attivazione dei circuiti meso-limbici, si abbassa la soglia per lo
sviluppo di una gamma di reazioni che va dal semplice disagio ad intense
sensazioni di paura, che spesso il paziente si sforza di motivare
razionalizzandone la causa.
Studi
psicologici hanno cercato di interpretare le ragioni delle manifestazioni
ansiose più acute e protratte in chiave psicodinamica e fenomenologica. Secondo
la prima impostazione teorica, l’elaborazione del lutto per l’oggetto perduto
sarebbe ostacolata dal suo ritorno in forma di “fantasma” e resa conflittuale
dal dolore. In una prospettiva fenomenologica, assume particolare rilievo il
rinnovarsi del vissuto di perdita dell’integrità e della facoltà d’azione,
conseguente alla rievocazione dello stato di coscienza della fase acuta per
effetto delle percezioni abnormi.
Negli
stati protratti di dolore intenso, l’ansia può essere assente o non
manifestarsi clinicamente perché occultata dalla fisiopatologia dei fenomeni
algici.
Disturbi correlati. Varie alterazioni psichiche originate dalla reazione ad esperienze
insolite e incontrollabili, sviluppano spesso processi in circolo vizioso con
altri sintomi fisici e psichici. Per rendersi conto delle dinamiche che possono
essere innescate dalle percezioni abnormi, è necessario aver presente che la
parte del corpo asportata può esistere nella mente del paziente con una sua
specifica realtà, dalla quale la coscienza del soggetto può prendere le
distanze mediante l’esercizio delle facoltà di critica e di giudizio, ma non
può prescindere, perché è da questa invasa come da una endopercezione attuale e
costantemente rinnovata.
L’arto
fantasma può eseguire movimenti percepiti come reali. E’ accaduto che persone
amputate di recente si siano svegliate urlando che la gamba asportata stesse
provando a lasciare il letto e ad andarsene in giro per la stanza. Circa un
terzo dei pazienti, invece, riferisce l’esperienza di un arto paralizzato,
immobilizzato o agonizzante, che si rappresenta in una vivida virtualità come
se fosse incluso in un blocco di ghiaccio, permanentemente contorto a spirale o
addirittura tortuosamente piegato e fissato alla schiena.
Un
altro aspetto da non trascurare per comprendere l’essenza psichica di questo
fenomeno e dedurne le possibili conseguenze, è che può riguardare qualsiasi
parte del corpo e non soltanto gli arti: sono stati descritti casi nelle donne
mastectomizzate, in persone che avevano perso i genitali, in pazienti
sottoposti all’asportazione di organi interni o anche ad una semplice avulsione
dentaria. Alcune donne isterectomizzate, oltre ad avere dolori mestruali
periodici, hanno avvertito contrazioni nell’utero assente simili a quelle del
travaglio.
TEORIE SCIENTIFICHE
ALLA PROVA DEI FATTI[1].
Erasmus Darwin, nonno
del fondatore dell’evoluzionismo, sebbene fosse un naturalista aveva una
precisa opinione sull’origine cerebrale dell’arto fantasma, come si evince
dalle sue parole: “Non sembra chiaro che un simile fenomeno indica che le
nostre idee e le nostre sensazioni emergono dal nostro cervello e non dai
nostri organi tattili?”[2].
E’
probabile che questo autorevole punto di vista abbia influenzato molti studiosi
dell’epoca, tuttavia non poté dare origine ad una teoria scientifica,
soprattutto per la mancanza di nozioni
sull’organizzazione funzionale del sistema nervoso centrale.
Nella
seconda metà del Novecento, abbandonata l’idea che il fenomeno potesse
assimilarsi ad un’allucinazione, la maggior parte dei medici ritenne che le sue
basi biologiche fossero da ricercarsi nel moncone e non nel cervello.
Patrick
Wall, studioso della fisiologia del dolore presso il College dell’Università di
Londra, focalizzò l’attenzione sulle fibre nervose recise in corrispondenza
della cicatrice operatoria degli arti amputati. Tali fibre formano noduli o neuromi,
dai quali si ritenne che originassero segnali diretti alla corteccia lungo le
vie ascendenti topograficamente ripartite secondo i territori di innervazione,
ingannando il cervello sul segmento di provenienza degli stimoli propriocettivi
e nocicettivi. Wall sostenne l’ipotesi dell’origine periferica delle
sensazioni, corroborandola con prove plausibili, nel quadro coerente di una
teoria scientifica.
L’accettazione
dell’impianto teorico del ricercatore inglese, comportò l’introduzione della
terapia chirurgica dell’arto fantasma, che fu impiegata fino agli anni Ottanta
ed oltre, sebbene i risultati fossero quanto meno deludenti.
In
estrema sintesi l’esperienza chirurgica può essere ricondotta a tre tipi di
intervento: 1) sezioni dei nervi sensitivi diretti al midollo spinale; 2)
sezione delle fibre nervose del cordone posteriore del midollo spinale[3]
corrispondenti al contingente proveniente dal moncone; 3) sezione parietale
subcorticale di tipo lobotomico in corrispondenza delle aree somatosensoriali[4]
riceventi gli assoni di proiezione dal talamo (via spino-bulbo-talamo-corticale)
che, secondo la somatotopica, avrebbero convogliato impulsi provenienti dal
segmento corporeo sottoposto ad amputazione[5].
Il
bilancio complessivo di questa imprudente sperimentazione terapeutica fu
decisamente negativo, in quanto solo in alcuni casi fu possibile registrare una
temporanea scomparsa del dolore che, dopo un tempo più o meno lungo,
immancabilmente riappariva e, soprattutto, si rilevò che, qualsiasi fosse il
livello di sezione delle fibre, il fantasma persisteva.
Gli
esiti negativi del trattamento chirurgico ebbero probabilmente un ruolo
decisivo nell’abbandono dell’idea di un’origine totalmente periferica
dell’esperienza abnorme e nel farsi strada dell’importanza di uno schema
corporeo cerebrale, da non considerarsi come la semplice ripartizione
topografica, descritta per primo da Wilder Penfield, dei territori corticali
preposti al controllo sensitivo e motorio di specifici segmenti corporei, ma
come un complesso di elaborazioni integrate e capace di inferenza.
In
questa prospettiva lo studioso di psicofisiologia del dolore della McGill
University, Ronald Melzack, nel 1989 propose che le sensazioni legate
all’illusoria presenza di una parte del corpo, avessero una componente
fondamentale nell’attività di una specifica rete neuronica cerebrale[6].
Il
ritorno all’importanza del cervello intuita da Erasmus Darwin non fu,
naturalmente, il semplice portato del fallimento della terapia chirurgica, ma
ebbe origine in una maturazione culturale che seguiva di pari passo lo sviluppo
delle conoscenze neuroscientifiche e si basava su numerose osservazioni, una
delle quali sarebbe bastata da sola per giustificare il nuovo orientamento:
persone nate prive degli arti o private di questi nelle prime fasi della vita,
possono sperimentare il fantasma di una parte del corpo che non hanno mai
posseduto[7].
Secondo
Ronald Melzack, il cervello non si limita alla elaborazione dei segnali
provenienti dalla periferia, ma genera un proprio schema (neural signature)
che rappresenta integralmente il corpo e conferisce alla mente il senso della
configurazione, dei confini e dell’appartenenza. Se accettiamo l’ipotesi che
tale prodotto dell’attività cerebrale sia geneticamente predefinito e in gran
parte indipendente dall’esperienza, non avremo difficoltà a ritenere che non possa
essere alterato dalla rimozione chirurgica di una parte del corpo e nemmeno da
un difetto presente alla nascita e che, dunque, il persistere della sua
attività possa creare l’erronea sensazione della presenza della parte mancante[8].
La
complessa orchestrazione dei segnali che genera la neural signature
richiede una vasta rete di neuroni alla quale Melzack ha dato il nome di neuromatrix[9].
La
costituzione anatomica della neuromatrix può essere ricondotta ad aree della corteccia parietale e a due vie
nervose:
1)
corteccia somatosensoriale;
2)
corteccia di aree del lobo parietale responsabili della struttura mentale
dell’immagine del corpo;
3)
corteccia di aree del lobo parietale rilevanti per la coscienza del sé
corporeo;
4)
via che proietta alla corteccia somestesica, attraverso il talamo, segnali
sensitivi che saranno elaborati in sensazioni di posizione, tattili, termiche,
ecc.;
5)
via che attraversa le strutture del sistema limbico e conferisce alle
sensazioni le componenti emozionali associate al dolore e all’ansia.
Le
prime prove a sostegno dell’idea che la neuromatrix sia geneticamente prefissata secondo un piano che rappresenta tutto il
corpo, sono relativamente recenti e risalgono ad un lavoro che Melzack e i suoi
collaboratori hanno pubblicato nel 1997.
Lo
studio aveva esaminato 125 persone nate senza un arto o sottoposte ad
amputazione prima dei 6 anni, ed aveva rilevato in ben 41 di esse il fenomeno
dell’arto fantasma, in particolare in 1/5 degli affetti da assenza congenita e
in oltre la metà di coloro che avevano subito l’asportazione chirurgica nei
primi anni di vita.
Anche
in assenza di queste prove, fin da quando fu avanzata per la prima volta, la
teoria di Melzack ha consentito di formulare nuove interpretazioni, sia di
sindromi della neurologia classica, sia di disturbi entrati di recente nella
nosografia psichiatrica.
E’
noto che la lesione traumatica, l’ictus e più raramente altre cause che
danneggino il lobo parietale destro, possono dar luogo ad emisomatoagnosia (left
emibody neglect syndrome), associata o meno a negligenza spaziale
unilaterale (neglect)[10],
e profondamente disturbare i pazienti che perdono la
consapevolezza di appartenenza della parte sinistra del proprio corpo,
trascurandola nel vestirsi, lavarsi, muoversi nell’ambiente. Queste persone,
nell’indossare gli indumenti, possono non infilare la manica sinistra di una
maglia, di una camicia, di una giacca, o possono presentarsi in pubblico con
una sola scarpa, negando che il piede scalzo sia il proprio; le donne mettono
un solo orecchino e gli uomini radono solo la parte destra del viso senza
provare alcun disagio. Se si chiede loro il perché di un tale comportamento,
prima che abbiano ricevuto una spiegazione della sindrome di cui sono affetti,
risponderanno con argomentazioni che rivelano il tentativo di razionalizzare le
incongruenze, oppure con il fermo diniego circa l’appartenenza di quella parte
del corpo che, qualora si tratti di un arto, frequentemente è attribuita ad
altri[11].
Poiché
l’estensione e la localizzazione delle lesioni che causano tali quadri clinici
varia notevolmente da caso a caso, si comprende come l’ipotesi dell’esistenza
di un’ampia rete neuronica cerebrale che integra le varie parti del corpo in
una coscienza unitaria di appartenenza, costituisca uno strumento
interpretativo di notevole efficacia.
Sulla
base dell’esistenza di una neuromatrix si possono interpretare anche fenomeni transitori dovuti, con ogni
probabilità, a difetto di irrorazione ematica dell’encefalo, come nel caso di
un astronauta della NASA descritto da Miguel Nicolelis. Il pilota, nella fase
iniziale dell’orbita della sua prima missione spaziale, ordinò ai suoi colleghi
di smettere di sporgere le mani sul suo pannello di controllo di sinistra;
quando il suo equipaggio lo informò che la mano in questione era la sua, il
pilota negò con l’ironica fermezza di chi sa che non potrebbe misconoscere una
parte del proprio corpo che muove secondo precise intenzioni, dalle quali
dipende la vita propria e quella degli altri: “La mano sul pannello di sinistra
non è certamente mia”.
Questa
dichiarazione generò una grande preoccupazione a bordo e nello staff di
controllo del centro aerospaziale di Houston, fino a quando, alcune ore dopo,
il pilota esclamò: “Rilassatevi, ragazzi. Ho ritrovato sul pannello di controllo
la mia mano sinistra mancante!”[12]
Cos’era
accaduto? Presumibilmente, per effetto dell’accelerazione nel decollo o per
l’assenza di gravità in quota, si era verificata una riduzione di flusso
ematico -e conseguentemente di ossigeno e metaboliti- ai sistemi neuronici del
lobo parietale destro, attivi nel mantenimento dell’appartenenza della mano
sinistra[13].
Il
raro disturbo psichiatrico di identità dell’integrità corporea (body
integrity identity disorder, BIID), definito anche apotemnofilia per
la richiesta di amputazione da parte dei pazienti, si caratterizza per
un’alterazione della coscienza corporea che induce la persona a non riconoscere l’appartenenza di un proprio arto e ad
esserne infastidita al punto di volersene sbarazzare. L’alterazione dei sistemi
neuronici cerebrali che gestiscono la neural signature, anche in questo
caso può costituire una spiegazione soddisfacente.
Problemi
alla teoria di Melzack possono derivare dal suo cimento con la ricerca che
studia la plasticità dello schema corporeo corticale mediante le variazioni
anatomiche della somatotopica per effetto della fisiologia.
Se
una neuromatrix esiste, quali sono le sue componenti stabili e non soggette
a variazioni adattative?
Questo
interrogativo è stato sollevato da molti ricercatori, particolarmente da coloro
che già da tempo sono impegnati nello studio degli effetti del rimodellamento
corticale conseguente ad amputazione.
PLASTICITA’ CORTICALE
E MODIFICABILITA’ DELLA MATRICE. Fin da quando Wilder Penfield, stimolando con elettrodi la
corteccia cerebrale di pazienti svegli scalottati disegnò i confini delle aree
corticali corrispondenti ai territori sensitivi (omuncolo sensitivo) e
motori (omuncolo motorio) di tutto il corpo[14],
i ricercatori si sono interrogati sulle possibilità di adattamento di tale
topografia a variazioni normali e patologiche intercorse nella vita di un
individuo. La sperimentazione animale degli ultimi decenni ha accertato la
modificabilità delle dimensioni delle singole aree, per effetto di riduzione o
aumento di informazioni provenienti dai singoli segmenti corporei.
Negli
anni Ottanta, i gruppi di ricerca di Jon Kaas della Vanderbilt University e di
Michael Merzenich dell’Università della California a San Francisco,
dimostrarono che l’amputazione causava una ristrutturazione della mappa
corticale del corpo, così che i neuroni corrispondenti alla parte asportata
erano reclutati dalle aree corticali confinanti[15].
Ad esempio, in un esperimento condotto da Merzenich risultò che l’amputazione
del dito medio di una scimmia era in grado, nel giro di qualche mese, di
indurre i neuroni corticali reagenti a stimoli provenienti da quel dito, a
rispondere alla stimolazione dell’anulare e
dell'indice.
Nel
1993 John Chapin e Miguel Nicolelis della Duke University, dimostrarono che un
simile processo di riorganizzazione corticale ha inizio immediatamente dopo il
blocco degli impulsi provenienti dai nervi sensoriali delle vibrisse del ratto,
e si verifica anche nel talamo e in altre strutture cerebrali profonde poste
lungo la via di senso che conduce alla corteccia.
Il
gruppo di Tim Pons, compianto neuroscienziato dell’NIMH, provò a verificare gli
effetti sensitivi dell’amputazione recidendo l’intera afferenza sensitiva
dell’arto superiore di una scimmia: si ebbe un esteso rimaneggiamento della
topografia funzionale, così che i neuroni appartenenti al territorio della mano
mancante rispondevano a stimoli provenienti dalla superficie del viso
dell’animale[16]. Nel 1998
gli stessi ricercatori accertarono che una tale riorganizzazione si aveva anche
nei neuroni dei nuclei del tronco encefalico e del talamo posti sulla via che
termina alle aree corticali rimaneggiate.
Parallelamente
sono proseguite le indagini sull’uomo che, dagli anni Novanta, si sono avvalse
della magnetoencefalografia per studiare, mediante i campi magnetici prodotti
dall’attività neuronica, le modifiche indotte nella mappa dei territori
corticali dalla perdita di un arto. Usando questa metodica, Vilayanur S.
Ramachandran e i suoi colleghi dell’Università della California a San Diego,
rilevarono che stimoli sensoriali provenienti da alcune parti del viso di una
persona sottoposta ad amputazione, attivano l’area corticale della mano
perduta, come era stato riscontrato nella scimmia.
Ramachandran
ha riprodotto, probabilmente per la prima volta in corso di verifica
sperimentale, le sensazioni dell’arto fantasma stimolando specifici punti della
parte inferiore del viso: la stimolazione tattile di ciascuno di essi provocava
la sensazione in una circoscritta area della mano fantasma, con una costanza
tale da consentire di tracciare sulla parte bassa della faccia una
rappresentazione topografica della mano non più posseduta dal paziente. Altro
aspetto interessante di questo trasferimento delle superfici di evocazione
dalla mano al viso, è dato dalla conservazione dei rapporti topografici e del
tipo di sensazione con stimoli diversi, quali caldo, freddo, sfregamento e
massaggio.
Provata
la conservazione della facoltà di evocare le sensazioni dell’arto amputato,
molti ricercatori si sono chiesti se questa riorganizzazione cerebrale fosse in
qualche modo responsabile del dolore.
Nel
1995 Herta Flor e i suoi colleghi dell’Università di Heidelberg, usando
tecniche neuromagnetiche non invasive, misurarono il grado di riorganizzazione
corticale in 20 soggetti che avevano subito un’amputazione e rilevarono una
stretta correlazione fra l’entità del rimaneggiamento della corteccia cerebrale
e la sofferenza dolorosa riferita dai pazienti all’arto mancante. Si dedusse
che le modificazioni plastiche intervenute nella corteccia somatosensoriale
fossero all’origine delle sensazioni dolorose abnormi.
Uno
studio di follow-up, condotto nel
2001 dallo psicologo Niels Birbauer dell’Università di Tuebingen in Germania
con un gruppo di collaboratori che includeva la stessa Herta Flor, fornì
conferma all’idea dell’importanza delle alterazioni della corteccia sensitiva
nella genesi dei sintomi algici. In questo interessante lavoro fu accertato,
mediante risonanza magnetica funzionale (fMRI), che i movimenti immaginati
della mano fantasma attivavano l’area della corteccia somatosensoriale
corrispondente alla faccia solo nei pazienti sofferenti di dolore da arto
fantasma e non negli amputati non sintomatici. Tale evidenza ha indotto la
formulazione di un’ipotesi, considerata ancora valida per spiegare la
patogenesi del sintomo: il dolore risulterebbe dalla simultanea attivazione dei
territori corticali corrispondenti alla bocca e alla mano dell’omuncolo
sensitivo.
DALLO SPECCHIO ALLA
REALTA’ VIRTUALE: UNA TERAPIA FISICA PER AGIRE SULLA RIORGANIZZAZIONE
CEREBRALE. Il vincolo
biologico di stabilità dello schema corporeo, impone limiti invalicabili alla
plasticità dei neuroni delle aree corticali corrispondenti ai vari segmenti
della periferia somatica, tuttavia l’ordinata ripartizione somatotopica
presente alla nascita non sembra essere sufficiente a garantire l’integrazione
del controllo cosciente del sé corporeo con le procedure senso-motorie
automatiche segmentali. Tale sintesi, che governa in termini di coscienza
non-dichiarativa la maggior parte dell’esperienza della nostra vita quotidiana,
sembra essere il prodotto di un equilibrio dinamico costantemente aggiornato e
nutrito mediante feed-backs sensoriali. In questi processi
neurofisiologici un ruolo non secondario è svolto dalle informazioni visive
che, integrando quelle propriocettive, forniscono un aggiornamento istante per
istante sullo stato funzionale dei segmenti corporei.
Vilayanur
Ramachandran, con la sua collega e moglie Diane Rogers Ramachandran, hanno
provato a sfruttare questa particolarità fisiologica per ingannare i sistemi di
controllo della coscienza del corpo con l’ausilio di uno specchio.
I
ricercatori hanno rimosso la parte superiore di una scatola di cartone nella
quale hanno inserito uno specchio in posizione verticale, hanno poi adattato
questo semplice dispositivo artigianale in maniera tale che l’inserimento
frontale dell’arto superiore da parte di 10 volontari privi di un braccio
producesse, mediante la riflessione nello specchio, l’illusione di possedere
nuovamente la parte del corpo asportata. Il feed-back proveniente
dall’immagine speculare doveva, nelle intenzioni dei due studiosi, sovrapporsi
agli stimoli endogeni all’origine del fenomeno dell’arto fantasma. Nel corso
degli esperimenti, quando i volontari muovevano il braccio seguendo le risposte
speculari, avevano la sensazione di stare compiendo movimenti con l’arto
amputato; in altre parole avevano la sensazione cosciente che il braccio
perduto obbedisse ai propri comandi volontari[17].
Sei
dei dieci partecipanti alla sperimentazione hanno dichiarato di avere la
sensazione di veder muovere l’arto fantasma e poter compiere gesti ed atti con
entrambe le braccia; quattro volontari sono riusciti ad impiegare questa
facoltà appena acquisita per rilassare ed aprire la mano non più posseduta e
percepita come fosse serrata in una contrattura spastica e dolorante, con
eliminazione della sensazione di spasmo e del dolore.
In
uno dei partecipanti, tre settimane di esercizio terapeutico quotidiano con lo
specchio sono state sufficienti per la totale scomparsa del braccio fantasma,
che si è accompagnata all’estinzione del dolore al gomito perduto.
In
questa esperienza, l’illusione visiva sembra aver corretto quella tattile ed
essere riuscita, in qualche caso, ad abolire la percezione del dolore. Tali
risultati suggeriscono che l’attività delle reti neuroniche visive possa agire
sulle vie e sulle aree appartenenti alla neuromatrix teorizzata da
Melzack, della quale si è detto in precedenza[18].
A
dieci anni di distanza dagli esperimenti dei coniugi Ramachandran, l’efficacia
dello specchio nel ridurre le sensazioni legate al fenomeno dell’arto fantasma
è stata messa alla prova da Eric Brodie e colleghi della Glasgow Caledonian
University, in uno studio ben più strutturato, al quale hanno preso parte 80
volontari mancanti di un arto inferiore[19].
Per queste prove è stata realizzata una “mirror box” adatta allo studio del
movimento della gamba e, allo scopo di ottenere risultati non ambigui ed
agevolmente verificabili, sono stati studiati e definiti 10 movimenti da
ripetere per 10 volte, sia da parte dei soggetti che direttamente
sperimentavano gli effetti della riflessione speculare, sia da parte del gruppo
di controllo.
Guardando
allo specchio la gamba eseguire la serie di movimenti prestabiliti, le 41
persone appartenenti al gruppo che metteva alla prova l’efficacia del feedback originato dall’immagine
riflessa, dovevano provare ad immaginare di muovere l’arto fantasma. I 39
appartenenti al gruppo di controllo dovevano eseguire, senza l’ausilio dello
specchio, le stesse dieci serie di dieci movimenti con l’arto superstite e
mentalmente con quello perduto.
E’
risultato che in entrambi i gruppi il breve training
sperimentale ha sortito effetti positivi, riducendo tutta la gamma di
sensazioni legate all’arto fantasma, incluso il dolore. Sebbene lo specchio non
abbia significativamente rinforzato questi esiti, ha determinato l’esecuzione
di un maggior numero di movimenti mentali dell’arto assente, inducendo una suggestione
più vivida della sua esistenza.
Se
questi risultati sembrano deludere le aspettative nutrite circa le possibilità
di una terapia fisica basata sull’impiego della riflessione speculare, Brodie e
i suoi collaboratori osservano che un trattamento protratto potrebbe rivelarsi
efficace favorendo, attraverso gli effetti sulla coscienza, un’azione
correttiva su quella riorganizzazione corticale che segue l’amputazione e
sembra essere responsabile del dolore.
In
generale, si può osservare che tutta la terapia neuroriabilitativa che fa leva
sulla plasticità corticale è in grado di produrre risultati per trattamenti di
media e lunga durata, pertanto non è infondato supporre che, accrescendo la
durata temporale del periodo di esercizio, lo specchio potrebbe rivelare una
certa efficacia.
Intanto,
un approccio basato sugli stessi principi, ma meno “artigianale” e più adeguato
ai recenti sviluppi della tecnologia finalizzata alla riabilitazione, è allo
studio da anni ed è in grado di produrre illusioni con un grado di realismo
molto più elevato di un semplice specchio. Si tratta di simulazioni
tridimensionali assistite da computer o “Realtà Virtuale” (Virtual Reality
o VR) che, come è noto, richiedono l’applicazione sul corpo di sensori
Polhemus, necessari alla riproduzione sincronica dei movimenti reali da parte
dei segmenti corporei virtuali, e l’immersione percettiva del soggetto nello
spazio artificiale che, mediante speciali visori adattati agli occhi, sarà
vissuto come reale.
Questa
tecnologia presenta molti vantaggi rispetto all’uso di semplici immagini
riflesse, perché consente di riprodurre in forma virtuale ogni parte del corpo
esistente o perduta e permette di eseguire movimenti complessi, non solo con i
segmenti principali degli arti (braccio, avambraccio, coscia e gamba), ma anche
con le estremità distali, combinando i più vari atteggiamenti e spostamenti
delle dita delle mani e dei piedi. Un limite della VR è dato dalle difficoltà
di applicazione a campioni numerosi.
Uno
studio preliminare del 2007, condotto da ricercatori dell’Università di
Manchester guidati dallo psicologo Craig Murray, ha recentemente esplorato le
possibilità della VR in tre persone, due delle quali amputate dell’arto
superiore e una dell’arto inferiore. E’ stata realizzata una simulazione che
trasportava i movimenti dell’arto reale a quello virtuale, che si sovrapponeva
all’arto fantasma nell’ambiente della VR. Tutti e tre i volontari hanno
riferito che, nelle sessioni sperimentali, le sensazioni provenienti dall’arto
superstite si trasferivano ai muscoli ed alle articolazioni dell’arto fantasma;
nei tre volontari il dolore è diminuito durante l’esercizio in almeno una delle
sessioni.
I
risultati del lavoro di Murray sono incoraggianti e, sebbene vi sia ancora
molta strada da percorrere nello studio dei processi alla base del fenomeno e
nell’ottimizzazione dei metodi di trattamento, la terapia dell’arto fantasma
sembra essere ormai avviata lungo un percorso che condurrà a livelli di
efficacia apprezzabili[20].
Gli autori ringraziano la dottoressa
Floriani per la collaborazione.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
1.
Altschuler
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[1] Si è scelto, per brevità, di non fare cenno alle teorie psicologiche proposte nella relazione ai soci di Giuseppe Perrella, dalla quale trae origine la prima stesura del presente scritto; chi sia interessato all’argomento, potrà trovare in bibliografia alcune letture consigliate.
[2]
Citato da Miguel Nicolelis [nostra traduzione letterale] in Living
with Gostly Limbs. Sci. Am.
Mind 18 (6), 52-59,
Dec. 2007/Jan. 2008.
[3] White J. C. & Sweet W. H.,
Effectiveness of Chordotomy in Phantom Pain After Amputation. A. M. A. Arch. Neurol. & Psychiat. 67, 315-322, 1952.
Sembra che le sezioni non fossero specifiche per le vie dolorifiche e interessassero i fascicoli gracile di Goll e cuneato di Burdach, che insieme costituiscono il contingente maggiore delle vie ascendenti del midollo, che convoglia prevalentemente stimoli della sensibilità tattile epicritica e propriocettiva cosciente.
[4] Pool J. L. & Bridges T.
J., Subcortical Parietal Lobotomy for Relief of Phantom Limb Syndrome in the
Upper Extremity. Bull. New York Acad. Med. 30, 302-309, 1954.
[5] La nostra ovvia condanna di simili interventi, tanto aggressivi quanto scientificamente infondati, può trovare oggi una facile condivisione, ma occorre ricordare, soprattutto a beneficio dei lettori più giovani, che fino a qualche decennio fa vi erano ancora molte scuole - soprattutto d’oltreoceano - che teorizzavano e praticavano la psicochirurgia, ossia la distruzione di parti del cervello per “curare” disturbi psichiatrici: si andava dalla celeberrima leucotomia prefrontale di Moniz, consistente nel taglio in stereotassia dei collegamenti del lobo frontale, alla selettiva distruzione di nuclei cerebrali come l’amigdala, per ottenere l’abolizione del comportamento aggressivo.
[6] R. Melzack, Phantom Limbs, the Self
and the Brain: The D. O. Hebb Memorial Lecture. Canadian Psychology 30
(1): 1-16, 1989.
[7] Poeck K., Phantoms following
amputation in early childhood and in congenital absence of limbs. Cortex
1, 269-275, 1964.
[8] Nella visione di Giuseppe Perrella, il fantasma sorge dalla perdita di equilibrio fra inferenza percettiva e controllo periferico dell’inferenza. La perdita o l’assenza dei segnali provenienti dalla periferia, impedisce la modulazione, da parte di altre reti neuroniche, degli inputs schematici inviati dal pattern prefissato, che può rimanere bloccato in una condizione funzionale rinforzata dall’esperienza emozionale, come accade quando il dolore pre-operatorio persiste dopo l’amputazione.
[9] Melzack Ronald, Phantom Limbs in
“Mysteries of the Mind”. Scientific American Special Issue 7 (1), 84-91,
1997.
[10] La tradizionale distinzione fra emisomatoagnosia e negligenza spaziale unilaterale aveva fondamento nelle diagnosi cliniche del passato, che si limitavano spesso ad una verifica di dati emergenti in un periodo breve. Si voleva che l’associazione fra la negligenza dello spazio esterno e quella del proprio corpo non andasse oltre il 30% dei casi. La distinzione si giustificava anche sulla base dei dati ottenuti da Rizzolatti nella scimmia (Rizzolatti et al., 1983; Rizzolatti e Camarda, 1987; Rizzolatti e Gallese, 1989) che registrava negligenza di un’area peribuccale per la lesione dell’area 6 e negligenza spaziale per la lesione dell’area 8. Si è dunque ritenuto che esistessero due sistemi neuronici distinti con due localizzazioni definite. Tuttavia questa interpretazione era in contrasto con i dati clinici che proponevano una lesione posteriore destra nella maggior parte dei casi (Bisiach et al., 1986) e, ad un esame attento, una presenza quasi costante di sintomi di negligenza del corpo e dello spazio di sinistra (Pizzamiglio et al., 1989). Attualmente è noto che le funzioni spaziali nell’uomo non hanno la stessa schematica localizzazione della scimmia e le sindromi di neglect presentano varie combinazioni della componente somatica e di quella extra-personale.
[11] Uno degli autori, notando che una paziente dimessa da poco dopo un trauma cranico aveva una scarpa sola, si è sentito replicare: “Cosa vuole che mi importi che mia sorella voglia andare in giro con una scarpa sola, visto che questa gamba è sua e non mia, come sta sostenendo lei con uno scherzo di cattivo gusto!”
[12]
Si veda a pagina 57 di Miguel Nicolelis, Living with Gostly Limbs. Sci. Am. Mind 18 (6), 52-59, Dec.
2007/Jan. 2008.
[13] Al lettore non specialista si ricorda che tutte le vie sensitive e motorie sono crociate, con la conseguenza che l’emisfero destro controlla il lato sinistro del corpo e, viceversa, la metà destra del cervello controlla l’emisoma sinistro. Esiste, poi, un’asimmetria fisiologica che ascrive al lobo parietale destro una maggiore competenza spaziale, secondo il principio di specializzazione complementare emisferica, introdotto dalla stessa scuola di Roger Sperry e Michael Gazzaniga che aveva proposto il concetto di dominanza (emisfero sinistro dominante per la presenza delle aree corticali di controllo del linguaggio verbale nella maggior parte delle persone).
[14] Penfield W. & Rasmussen
T., The Cerebral Cortex of Man. Macmillan, New York 1950.
[15]
La letteratura scientifica in proposito è molto vasta, per brevità si è scelto
il riferimento ai lavori delle scuole considerate più autorevoli nella maggior
parte delle rassegne recenti; si veda, ad esempio, la pag. 58 di Miguel
Nicolelis, Living with Ghostly Limbs. Sci. Am. Mind
18 (6), 52-59, Dec. 2007/Jan. 2008.
[16] Si ricorda che, nello schema corticale dei territori di innervazione sensitiva del corpo (omuncolo sensitivo) disegnato da Penfield e Rasmussen, l’area della faccia segue immediatamente quella della mano.
[17]Si
veda, per maggiori dettagli: Vilayanur S. Ramachandran e Diane Rogers
Ramachandran, It’s All Done with Mirrors. Scientific American Mind, August/September 2007.
[18] Melzack Ronald, Phantom Limbs in
“Mysteries of the Mind”. Scientific American Special Issue 7 (1), 84-91,
1997.
[19] Brodie E. E., et al., Analgesia
through the Looking Glass? A Randomized controlled Trial Investigating the
Effect of Viewing a “Virtual Limb” upon Phantom Limb Pain, Sensation and
Movement. European Journal of Pain 11 (4), 428-436, 2006.
[20] Si è scelto di non trattare altre procedure terapeutiche attualmente in fase di sperimentazione, in attesa di conferme della loro efficacia; fra queste la EMDR (eye movement desensitization and reprocessing) sembra promettente. Si veda in proposito il lavoro di Schneider e colleghi al n° 37 dei riferimenti bibliografici.